Le prime, sui banchi dei fruttivendoli e dei supermercati, si vedono a gennaio e arrivano dalla Sicilia. Poi quelle vendute fino a marzo vengono coltivate sull’isola ma anche in Calabria. Un mese dopo compaiono quelle provenienti da Campania e Basilicata mentre quelle di maggio, a prezzi più accessibili, si estendono alle piantagioni del basso Lazio e con l’addentrarsi nell’estate si prosegue verso nord, fino al Trentino e al Piemonte passando per Emilia Romagna e Veneto. Sono le fragole ormai in commercio quasi in ogni stagione, quelle che non arrivano in banchi frigo dall’estero, ma che sono prodotte in Italia impiegando 4 mila ore di lavoro all’anno per ettaro e che, dai più recenti dati dei sindacati, segnano il ritorno di un fenomeno: il caporalato femminile.
Come negli anni Ottanta con la strage di Ceglie Messapico
Sembra quasi di essere tornati alle cronache dell’estate del 1980, quando la strage di Ceglie Messapico, provincia di Brindisi, accese i riflettori su questo fenomeno. Accadde quando morirono Pompea Argentiero, 16 anni, Lucia Altavilla, 17, e Donata Lombardi, 19, stipate insieme ad altre 12 ragazze in un pullmino dei caporali finito contro un camion.
Poi il mercato dello sfruttamento del lavoro in agricoltura cambiò, iniziarono a essere assorbiti migranti, meglio se clandestini. Ma dall’omicidio di Jerry Masslo nel 1989 alla rivolta di Nardò dell’estate 2011, ecco che i braccianti stranieri – per quanto tutt’altro che scomparsi – hanno di nuovo lasciato il posto a loro, alle donne, spesso italiane.
Solo in Puglia 40 mila le donne schiavizzate per le “top quality”
Secondo la Flai Cgil Puglia sono 40 mila almeno (di cui 18 mila sono straniere), lavorano non meno di 10 ore al giorno e in media non percepiscono più di 30 euro per ogni giornata trascorsa con la schiena piegata sulle piante di fragole “top quality”.
Nelle province di Taranto e di Brindisi, le nuove schiave dell’agricoltura escono alle 3 del mattino per cercare un ingaggio, sperando che lo sfruttamento si limiti al lavoro pagato malissimo, in nero, e senza nessuna garanzia. Perché capita infatti che possano esserci molestie sessuali alle quali occorre sottostare, se si vuole tornare nei campi.
Dopo le fragole, pesche, ciliegie e uva
E non c’è solo la Puglia, bestia nera del lavoro schiavistico in Italia, tra le regioni in cui si registra questo fenomeno. In base ai periodo e alle fasi di maturazioni, ci sono caporali che le portano in giro per le province, laddove c’è da raccogliere. Prima le fragole, ma poi arriva la stagione delle ciliege, delle pesche e via via dell’uva. Senza contare che poi le forme di sfruttamento si estendono anche ad altri luoghi, come i magazzini di confezionamento, dove le donne rimangono anche 15 ore consecutive e sono vittime anche di un’altra forma di discriminazione: agli uomini vengono riconosciuti 35 euro al giorno, mentre alle donne non più di 27.
“Reato difficile da provare, occorre protezione”
Ma ispezioni e denunce non possono ovviare al fenomeno? Pare di no, a causa dell’estensione del fenomeno. A livello nazionale, infatti, l’Istat dice che il 43% dei lavoratori agricoli (1,2 milioni in totale) è costretto a una condizione di sommerso.
Nel 2014, nella sola Puglia, sono state 1.818 le ispezione che hanno evidenziato 925 irregolarità per un totale di 1.299 lavoratori. Possibile che non sia emerso di più? Difficile credere che sia tutto a posto considerando che, sempre secondo dati Flai Cgil, altre 5 mila lavoratrici-schiave ci sono in Sicilia e 45 mila in Campania. Una spiegazione prova a darla Stefania Crogi, segretario generale Flai Cgil nazionale: “Il caporalato è stato riconosciuto come reato penale solo nell’agosto 2011 ed è punibile con l’arresto da 5 a 8 anni. Prima era prevista solo una sanzione pecuniaria. Ma non sempre si riesce a provarlo, anche a causa delle difficoltà che incontrano le vittime nel denunciare. Serve un percorso di protezione”.